lunedì 28 settembre 2009

Servi del dio Pan




Perché mai a me questa paura,
stabilmente, come un guardiano
davanti al mio cuore profetico
volteggia? E un canto non richiesto,
non pagato, pronuncia profezie,
né posso io scacciarlo come si fa
con sogni confusi, in modo che
la fiducia rassicurante sieda
sul trono della mia mente?

(Eschilo, Agamennone)



La paura ti stringe le palle e ti trascina sotto, in una palude di acqua pulita, perché i tuoi occhi devono poter vedere. Dove il sole è rotto in decine di crepitanti riflessi argentati. Dove il blu è un muro sordo di gelatina. Un silenzioso abbraccio che ti uccide dolcemente. La più inesorabile assenza di rumore che vanifica ogni sforzo di fiato.
La paura è ricordo. Sensazione che ti guida per mano in momenti conosciuti.
Il mal di pancia di un’indigestione, ammantata di sudore freddo. La minaccia di un conato di vomito che non arriva mai. E arriverà.
La nausea prima di andare in scena. Coronata dalla processione plumbea di aghi luminosi in fila indiana. Gocce di mercurio liberate da un termometro rotto. Dalla vescica ai reni.
Un calderone nero. La pancia di una strega. Ribolle prima di un esame. Orologi inceppati dietro le scritte sulla porta. Con la compagnia di vasi di porcellana fredda che non sembra bastare mai.
La paura arriva quando sbuca dietro l’angolo di un pensiero l’immagine di Te, che ti presenti pedalando, accompagnata da idee che mi prometto di non pronunciare per molto tempo ancora.
La paura da peso alle cose. Valore. La paura permette di misurare tutta la bellezza di una intera serata insieme a Te. Giochi con cui mi sorprendi alle spalle. Ore a cui non credevo più.
Allora, per un attimo stremato, riesco anche a sorridere e a rendere grazie per questa paura, fintanto, dietro ai suoi veli, si può intravedere danzare questo vizio che mi ucciderà ancora molte volte, e che non voglio smettere più.

domenica 13 settembre 2009

Frozen



Congelato. Il filo del discorso che unisce le storie con cui ho arredato questo spazio, che da un po’ di tempo non riannodo più. Come non avere più parole da dire. O come se queste bruciassero così amare in gola, come un sorso di grappa, da dover lasciare al palato qualche minuto di silenzio e apnea, per abituarsi, prima di poter pronunciare qualsiasi altra cosa.

Congelato. Come compiti ancora da finire che restano salvati sul portatile, e che avanzano stancamente, come un guerriero sporco e sudato che cerca claudicante la strada di casa, dopo che la guerra è finita da un pezzo.

Congelato. Come in attesa di una risposta che non arriverà mai, rimbalzato da un Godot all’altro, salutare qualcuno che parte e che «magari» non sarebbe tornato più.

Congelato. Come davanti a frasi criptiche capaci di riattizzare di linfa e miele nuove fantasie, ma isolate e sorde come un sasso gettato in uno stagno, buone solo a far partorire nuove idee balzane, ridicole imprese cavalleresche, progetti di nuovi arrembaggi discreti ad una nave che credevo avrebbe portato lontano. Trombe alle quali non verrà dato mai fiato.

Congelato. Come ad aprire la porta e trovarsi a far gli onori di casa ad un vecchio nemico, silenzioso e strisciante, di cui si erano perse le tracce da un bel po’ e che credevi gettato ormai alle spalle.

Congelato. Come davanti ad un autunno che si è presentato senza avvisare, dalla sera alla mattina, e con tutti i sentimenti, alzando un vento che, già, fa pensare e fa vestire da inverno.

Congelato. Con la netta sensazione che questo vento si sia portato via, insieme all’estate, anche tutte le fragole. Con gelato.