lunedì 23 novembre 2009

La direzione si scusa per il cambio di direzione



Ebbene d’ora in avanti dovrò fare a meno di una certezza tanto imperfetta, uno straniero m’ha invaso, d’ora un avanti “IO” chissà chi è.

(Gesualdo Bufalino, L'uomo invaso)



Al parco, una domenica di sole di fine dell’autunno. Il sole non scalda veramente, intiepidisce. Per terra, tra le foglie secche, gialle, le ombre si distendono lunghissime. I bambini, giocando come i cani, le rincorrono divertiti, quasi fossero giganti che non spaventano più. Tira un po’ di vento, che raffredda il sudore sulla schiena, la punta del naso e le guance bruciano arrossati. Su un girello che dovrebbe essere azzurro, non proprio arrugginito, ma dalla vernice scartocciata, dondola un bambino solitario. Ha indosso un costume rosso, da Jolly. Un collare e un cappello a sei punte, con campanellini sonanti che tintinnano giù. Ogni tanto si da una spinta per continuare a girare.

Si dice che talvolta chiudere gli occhi sia il modo migliore per vedere più chiaro. Das Innere Auge.
Gli occhi li chiudo forte. Ma non trovo ancora la chiarezza che cercavo. Ogni punto esclamativo acquistato al mercato delle pulci, finisce per arricciarsi in un punto di domanda, sorpreso dall’umidità di questo fiato grosso che appanna gli occhiali.
Seduto su quella stessa giostra. Ma questa gira sempre più stancamente, sotto i colpi di spinte distribuite, oramai, prevalentemente a casaccio, random, assolutamente orfane della certezza di chi sa che cosa ci vuole, cosa sta facendo, e perché.
Ora scrivo la tesi con la testa sott’acqua, ma francamente ignaro della direzione in cui i miei discorsi andranno a parare. Ora non scrivo più una riga per tre settimane.
Mollo il teatro, mi avventuro tra yoga e corsi di cucina, consumo e sostituisco inutili ampolle di fiori di Bach, sfogo frustrazioni e inoculo germi in una palestra di nazisti.
Prima cerco di aggiustare conti col passato, rimandati oltre ogni dignità. Poi cerco di ristabilire i contatti con quello che una volta facevo e che ora mi paralizza, con quella leggerezza e quella spontaneità soffocata da giudici severi che pretendono la più austera perfezione da me, allungano sulla mia fronte una fredda carezza, e poi si guardano la mano.
Adesso scavo e cerco questo fondo. Dov’è questo fondo da toccare e risalire, o da sfondare e proseguire dritto? Dove sono quelle parti di me che ho perso, a cui ho rinunciato, perché non volevo più fare del male, e la cui assenza adesso mi impedisce di fare il mio bene? Quanti errori mi sono concessi ancora, e quanto tempo per riparare a questi errori? E tutto il tempo generoso del mondo, sarebbe sufficiente, senza sapere da che parte cominciare?
Con tempismo irriverente che fa pensare a coincidenze o somatizzazioni, si susseguono le febbri. E io ne approfitto per staccare un poco la spina da questi pensieri confusi, almeno il tempo necessario a guarire, perché il greto di questa ricerca ossessiva sembra spingermi nulla più che in equilibrio su un burrone di follia. E allora non pensare, perché ci sarebbe solo bisogno di fare, e pensare a fare, senza avere idea di cosa fare.

Al parco, una domenica di fine autunno, ha cominciato a piovere. Un girello che dovrebbe essere azzurro, non proprio arrugginito, ma dalla vernice scartocciata. Nessuno è seduto la sopra, nessuno, più, dà spinte confuse. Cigolìo claudicante. Si è già fatto buio, è calata la sera, e cadono altre gocce, e cadono altre foglie gialle, su di una domenica, caduta pure lei, all’indietro. Che in ogni caso non tornerà più.



Nessun commento:

Posta un commento